Nutrirsi. Primavera 2021

testi di: Jeanne Bémer-Sauvan, Nedda Falzolgher, Han Shan, Jiddu Krishnamurti

fotografie analogiche di Christopher Taylor

Il ruscello, in cui confluivano altri ruscelli più piccoli, serpeggiava rumorosamente attraverso la valle e il suo ciarlare era sempre diverso. Aveva i suoi particolari umori, che non erano mai sgradevoli, mai umore nero. I ruscelli piccoli avevano una nota più acuta, c’erano in essi più ciottoli e rocce; avevano quieti specchi d’acqua nell’ombra, poco profondi, con ombre danzanti, e di notte avevano un timbro del tutto differente, dolce, gentile ed esitante. Scendevano attraverso valli diverse da diverse sorgenti, una molto più lontana dall’altra: uno nasceva da un ghiacciaio e da una tortuosa cascata, mentre l’altro doveva venire da una sorgente troppo lontana per raggiungerla a piedi. Entrambi confluivano nel ruscello più grande che aveva un tono profondo e calmo, più austero, ampio e rapido. Tutti e tre i ruscelli erano fiancheggiati da alberi, e la lunga linea ricurva degli alberi mostrava da dove i corsi d’acqua venivano e dove andavano; erano loro i legittimi abitatori delle vallate e chiunque altro era uno straniero, compreso gli alberi. Per il momento si poteva osservarli e ascoltare il loro chiacchiericcio senza fine; erano allegri e giocosi, persino il più grande, benché dovesse mantenere una certa dignità. Appartenevano alle montagne, dalle cime vertiginose particolarmente vicine al cielo, e quindi particolarmente pure e nobili; non si davano arie ma mantenevano il loro rango ed erano piuttosto distanti e freddi. Nell’oscurità della notte avevano un canto proprio, che erano in pochi ad ascoltare. Era un canto fatto da molti canti.

Jiddu Krishnamurti, Taccuino. Un diario spirituale, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 2007


 

In realtà sembra che stasera questo paesaggio sia impegnato a esprimere le sue emozioni, che abbia reazioni e riflessi propri, che un’intelligenza, una sensibilità, un’individualità stiano nascendo in lui. Pur sapendo che sono io a dargli forma ritagliandolo in modo molto arbitrario nello spazio, ora dovrò lasciarmi andare all’incantesimo di scoprire una vita dentro di esso. In certe ore del giorno si manifesta una sorta di esalazione, di restituzione del divino che è in lui, in particolare nei due crepuscoli – o quantomeno diventa più percepibile in quegli istanti in cui i colori e le linee sollecitano meno l’attenzione del senso estetico: in me si desta un altro senso, che non ha bisogno delle forme e afferra solo la Vita. Di solito questa Vita la sento ovunque, ma come sepolta, stravasata, in perpetuo travaglio di parto sotto la materia. Qui posso riconoscere lo stesso sforzo, la stessa tensione verso uno scopo che impone a sé stessa anche nelle anime degli uomini, ma in questo paesaggio, in queste sere, in queste calme mattine, la scopro improvvisamente come una Presenza, una Presenza terrificante, incomprensibile, immutabile, immobile e che sta qua, terribilmente, come Dio! […]
Un senso di maestosità scaturisce dagli alberi, sale dalla terra, avvolge i sassi inerti; a esprimerlo è questo silenzio, è questa apparente impassibilità. L’acqua stessa, scorrendo, non disturba questa tranquilla staticità, è solo un elemento fluido, come la luce, la cui discesa inaudita trapassa il paesaggio senza che il riposo, la sosta eterna, l’eterna stabilità in cui risiede la Presenza ne siano turbati neppure un istante.

Jeanne Bémer-Sauvan, Mistica della fattoria, Edizioni di Maieutica, Milano, 2021


 

L’anno passato, un anno doloroso,
viene la primavera, freschi di nuovo i colori,
i fiori di montagna ridono, verdi le acque,
sulle rocce danzano nebbie azzurrine,
api e farfalle manifestano la gioia,
uccelli e pesci sono anche più allegri,
vagabondare con gli amici, piacere senza fine,
prima dell’alba non si può dormire.

朋 蜂 山 歲
游 蝶 花 去
情 自 笑 換
未 雲 淥 愁
已 樂 水 年
,, , ,

徹 禽 岩 春
曉 魚 岫 來
不 更 舞 物
能 可 青 色
眠 憐 煙 鮮
。 。 。 。

Han Shan 寒山, monaco poeta cinese vissuto presumibilmente nel secolo VIII sui monti Tiantai (Cina)


 

Roseto

Tempesta dentro il grembo delle rose.
(Bellezza, mia rapida festa, mia prima ricchezza!)
La vita con accese mani
erge i boccioli al fiato di luce,
preme i calici, allarga gli stami.

Non c’è più tregua per questo fiorire;
una violenza lo insegue,
soave come un acuto morire.

Io chiedo pace per un folto di rose
che un vento d’amore ha sconvolto.

E sia lentissima la sera,
perché un polline resti alle cose,
segreto come una verginità che trema:

in fondo al tempo ho sentito
un ansito sempre più breve;
un trasalire di rose violate;
l’ultimo sciame che beve.

Nedda Falzolgher, Fin dove il polline cade, Nicolodi, Mori (Tn), 2008

Il ruscello, in cui confluivano altri ruscelli più piccoli, serpeggiava rumorosamente attraverso la valle e il suo ciarlare era sempre diverso. Aveva i suoi particolari umori, che non erano mai sgradevoli, mai umore nero. I ruscelli piccoli avevano una nota più acuta, c’erano in essi più ciottoli e rocce; avevano quieti specchi d’acqua nell’ombra, poco profondi, con ombre danzanti, e di notte avevano un timbro del tutto differente, dolce, gentile ed esitante. Scendevano attraverso valli diverse da diverse sorgenti, una molto più lontana dall’altra: uno nasceva da un ghiacciaio e da una tortuosa cascata, mentre l’altro doveva venire da una sorgente troppo lontana per raggiungerla a piedi. Entrambi confluivano nel ruscello più grande che aveva un tono profondo e calmo, più austero, ampio e rapido. Tutti e tre i ruscelli erano fiancheggiati da alberi, e la lunga linea ricurva degli alberi mostrava da dove i corsi d’acqua venivano e dove andavano; erano loro i legittimi abitatori delle vallate e chiunque altro era uno straniero, compreso gli alberi. Per il momento si poteva osservarli e ascoltare il loro chiacchiericcio senza fine; erano allegri e giocosi, persino il più grande, benché dovesse mantenere una certa dignità. Appartenevano alle montagne, dalle cime vertiginose particolarmente vicine al cielo, e quindi particolarmente pure e nobili; non si davano arie ma mantenevano il loro rango ed erano piuttosto distanti e freddi. Nell’oscurità della notte avevano un canto proprio, che erano in pochi ad ascoltare. Era un canto fatto da molti canti.

Jiddu Krishnamurti, Taccuino. Un diario spirituale, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 2007


 

In realtà sembra che stasera questo paesaggio sia impegnato a esprimere le sue emozioni, che abbia reazioni e riflessi propri, che un’intelligenza, una sensibilità, un’individualità stiano nascendo in lui. Pur sapendo che sono io a dargli forma ritagliandolo in modo molto arbitrario nello spazio, ora dovrò lasciarmi andare all’incantesimo di scoprire una vita dentro di esso. In certe ore del giorno si manifesta una sorta di esalazione, di restituzione del divino che è in lui, in particolare nei due crepuscoli – o quantomeno diventa più percepibile in quegli istanti in cui i colori e le linee sollecitano meno l’attenzione del senso estetico: in me si desta un altro senso, che non ha bisogno delle forme e afferra solo la Vita. Di solito questa Vita la sento ovunque, ma come sepolta, stravasata, in perpetuo travaglio di parto sotto la materia. Qui posso riconoscere lo stesso sforzo, la stessa tensione verso uno scopo che impone a sé stessa anche nelle anime degli uomini, ma in questo paesaggio, in queste sere, in queste calme mattine, la scopro improvvisamente come una Presenza, una Presenza terrificante, incomprensibile, immutabile, immobile e che sta qua, terribilmente, come Dio! […]
Un senso di maestosità scaturisce dagli alberi, sale dalla terra, avvolge i sassi inerti; a esprimerlo è questo silenzio, è questa apparente impassibilità. L’acqua stessa, scorrendo, non disturba questa tranquilla staticità, è solo un elemento fluido, come la luce, la cui discesa inaudita trapassa il paesaggio senza che il riposo, la sosta eterna, l’eterna stabilità in cui risiede la Presenza ne siano turbati neppure un istante.

Jeanne Bémer-Sauvan, Mistica della fattoria, Edizioni di Maieutica, Milano, 2021


 

L’anno passato, un anno doloroso,
viene la primavera, freschi di nuovo i colori,
i fiori di montagna ridono, verdi le acque,
sulle rocce danzano nebbie azzurrine,
api e farfalle manifestano la gioia,
uccelli e pesci sono anche più allegri,
vagabondare con gli amici, piacere senza fine,
prima dell’alba non si può dormire.

朋 蜂 山 歲
游 蝶 花 去
情 自 笑 換
未 雲 淥 愁
已 樂 水 年
,, , ,

徹 禽 岩 春
曉 魚 岫 來
不 更 舞 物
能 可 青 色
眠 憐 煙 鮮
。 。 。 。

Han Shan 寒山, monaco poeta cinese vissuto presumibilmente nel secolo VIII sui monti Tiantai (Cina)


 

Roseto

Tempesta dentro il grembo delle rose.
(Bellezza, mia rapida festa, mia prima ricchezza!)
La vita con accese mani
erge i boccioli al fiato di luce,
preme i calici, allarga gli stami.

Non c’è più tregua per questo fiorire;
una violenza lo insegue,
soave come un acuto morire.

Io chiedo pace per un folto di rose
che un vento d’amore ha sconvolto.

E sia lentissima la sera,
perché un polline resti alle cose,
segreto come una verginità che trema:

in fondo al tempo ho sentito
un ansito sempre più breve;
un trasalire di rose violate;
l’ultimo sciame che beve.

Nedda Falzolgher, Fin dove il polline cade, Nicolodi, Mori (Tn), 2008